Cecchin: uomo di scienza o artista?
Federica Bastianello – Psicologa – Psicoterapeuta, Mediatore Familiare, Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia docente presso EIDOS sc. www.centro eidos.it eidos.sc@gmail.com
Cristina Pellizzaroli – Psicologa – Psicoterapeuta, Mediatore Familiare, EMDR Practitioner, Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia docente presso EIDOS sc. www.cristinapellizzaroli.it

Introduzione
Cecchin: uomo di scienza o artista?
Le riflessioni che intendiamo riportare in questo articolo hanno origine dagli spunti offerti dai libri, dalle interviste, dai pochi video rimasti di Gianfranco Cecchin e dai racconti dei docenti che hanno lavorato con lui. La nostra attenzione, quindi, si è focalizzata su due punti di vista apparentemente opposti e ci siamo chieste: Cecchin era un uomo di scienza o un artista? Queste descrizioni possiamo considerarle in relazione simmetrica o in relazione complementare? Il nostro intento è di tentare una possibile risposta. Per fare questo vogliamo offrire tre prospettive, che per noi possono essere interconnesse tra loro: una prospettiva di scienza, di conoscenza e di arte.
Un punto di vista scientifico
Che significato possiamo dare noi alla parola scienza?
Se vogliamo provare a definire la scienza possiamo pensare che essa sia un tentativo sistematico di acquisire conoscenze riguardo agli eventi del mondo, cercando di rispondere ai problemi che l’attualità mette in luce. La finalità della ricerca scientifica è quella di scoprire regolarità entro uno specifico ambito di studio. Le regolarità individuate sono le leggi scientifiche che vanno a costituire le teorie relative a quell’ambito di studio. Si identificano le componenti di un fenomeno che verrà descritto e misurato; si ipotizza quali sono le cause del fenomeno e quindi in base a queste conoscenze si prevede la possibilità di tale fenomeno; infine bisogna essere in grado di riprodurlo creandone le condizioni perché si presenti. Per esempio: se due genitori sono dipendenti da sostanze si vanno ad identificare quelle variabili costanti, obiettive e misurabili che possono costituire la premessa per cui un eventuale figlio potrà avere una maggiore o minore predisposizione alla dipendenza.
Karl Popper propone un punto di vista diverso sul modo di costruire la teoria scientifica e introduce l’idea che un sistema sia scientifico solo se può essere controllato dall’esperienza. Questo significa
(…) ascoltami, ti prego, sono stato anch’io un realista, ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista, l’apparenza delle cose come vedi non m’inganna,
preferisco le sorprese di quest’anima tiranna che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Francesco Guccini, Don Chisciotte (2000)
che una ipotesi, una legge scientifica non è detto che venga scelta una volta per tutte, ma deve poter essere falsificabile, cioè deve poter essere confutata dall’esperienza. Secondo Popper, infatti, una teoria scientifica è valida fintanto che non si incontra un elemento (un fatto, una osservazione) che ci porta a considerare che la teoria possa essere falsificata: un buon scienziato è pronto a cercare una nuova teoria che includa anche la nuova osservazione. La scienza risulta quindi caratterizzata da un progresso che Popper interpreta sulla falsariga del modello evoluzionistico darwiniano: la competizione tra le teorie scientifiche dà luogo ad una selezione della teoria che si dimostra la più adatta a sopravvivere, in quanto sino ad allora è l’unica ad aver superato i controlli più severi e a poter essere controllata, dall’esperienza, nel modo più rigoroso. La conoscenza scientifica non progredisce semplicemente accumulando risultati, ma adattando le teorie alle nuove conoscenze. La conoscenza, secondo Popper, non parte mai da zero, ha sempre una tradizione alle spalle, cosicché si può dire che ” il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti “. Egli paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte, che si elevano sopra una palude; quando ci si arresta ad una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per reggere la struttura.” Quel che in ultima analisi – dice Popper – decide del destino di una teoria è il risultato di un controllo”. La verità quindi non appartiene a specifiche teorie, che restano sempre ipotesi o congetture, ma è una sorta di ideale regolativo, che guida il processo di crescita della conoscenza: la scienza è una approssimazione alla verità, nel senso che la massima approssimazione è data dalla teoria meglio controllata sino a quel momento.
Cecchin, riferendosi a Bruner, fa sua l’idea che tutto sarebbe più facile se anche le relazioni fossero degli stimoli costanti sui quali applicare il metodo scientifico. Considerando il lavoro di Cecchin quello che abbiamo notato è che lui non cerca la regolarità, ma l’eccezione e non si chiede perché una cosa è successa, ma come è successa. Cecchin rispettava la scienza e le sue regole, ma si poneva di fronte ad essa in modo irriverente. Rispettare infatti non significa obbedire. Se in sala di terapia si presentavano due genitori alcolisti la sua attenzione era posta all’eccezione: se un figlio dipendente da sostanze poteva confermare i presupposti della teoria lui era curioso di capire come avessero cresciuto un figlio sano, non dipendente da sostanze.
Cecchin cerca la parte più difficile della ricerca scientifica: guarda la parte più piccola del campione, l’eccezione, l’alternativa, la peculiarità, quell’elemento che non è facile ricondurre ad un campione statistico. Se una teoria scientifica si chiede “come mai…”, Cecchin nella stanza di terapia si chiede “come mai non…”.
Cecchin afferma che “la classificazione” (intesa come procedimento per tracciare distinzioni, per organizzare l’esperienza e le osservazioni, al fine di capire e agire) sembra essere stata la principale preoccupazione dell’uomo fin dall’inizio della storia. L’ideale della scienza e delle sue
classificazioni è quello di creare, se possibile, un senso di prevedibilità e di causalità lineare o circolare. Tuttavia, quando si tenta di applicare i risultati astratti della ricerca al lavoro clinico con i clienti sorge un problema: quando entriamo nella stanza della terapia per parlare con una famiglia, una buona conoscenza statistica può essere inutile o addirittura dannosa. La ricerca e la classificazione appartengono ad un livello logico diverso dal livello dell’azione e della conversazione terapeutica. Come afferma Bateson il tentativo di utilizzare i risultati della ricerca come base per la conduzione terapeutica è un errore logico, carico di conseguenze potenzialmente dannose. (Cecchin, 1997). Cecchin, , in Clinica Sistemica, dialogando insieme a Boscolo, sul significato di fare terapia secondo il Milan Approach, dice che “il problema non è più la famiglia, ma come tu parli della famiglia” (pag. 327). Non è quindi necessario trovare un metodo preciso per prevedere le risposte della famiglia, in quanto ogni ipotesi attorno alla famiglia non è né vera né falsa e ogni domanda del terapeuta può far emerge nuove storie e nuove ipotesi. Cecchin dice che “in pratica il metodo di Milano è l’ipotizzazione. Discutere tutto. L’idea è che c’è sempre un’altra idea, non è mai un’idea finale e vera. Non c’è mai la verità, la verità sfugge sempre, tu continui a cercarla, ma non la trovi mai. E questo è quello che rende terapeutica la conversazione” (pag. 327).
Se scegliamo una prospettiva scientifica “tradizionale” per osservare la famiglia si parte dall’idea di capire che cosa c’è che non va nel sistema, cosa non funziona nella famiglia. Il problema principale che ne deriva è che per cercare quello che non funziona devo sapere che cosa funziona e studiare quindi quale sia l’idea giusta di famiglia da perseguire. Ma questo porta al caos perché l’idea di famiglia normale è diversa da posto a posto, da equipe ad equipe e ogni famiglia ha il suo concetto di normalità che viene dal suo interno, dai parenti, dagli amici, dal contesto sociale. Questo pregiudizio porta come conseguenza che il terapeuta si pone come esperto e studia sempre più per dimostrare di essere esperto. E quindi cade nella tentazione di voler spiegare alla gente come dovrebbe vivere e come dovrebbe comportarsi.
Se scegliamo la prospettiva di Cecchin nell’osservare la famiglia, siamo interessati a cercare ciò che funziona nel sistema. Anche questo è un pregiudizio: “se un sistema esiste vuol dire che qualcosa funziona. Se non funzionasse allora sarebbe già morto, non esisterebbe” (Clinica sistemica, 2004, pag.333). Andando alla ricerca di ciò che funziona si possano trovare cose interessanti che permettono di capire che cosa fa funzionare il sistema. Questa ricerca è resa possibile dalla curiosità (come mai siete quello che siete?) e dal rispetto (come avete fatto ad arrivare fino a questo punto?). “Sappiamo da anni che la connotazione positiva dei sintomi e dei vari comportamenti dei clienti ha un effetto positivo. Le persone in quelle condizioni sono circondate da altri che continuano a fare la lista di tutte le cose che non vanno bene. Così la connotazione positiva della loro esistenza, unita ad una certa ammirazione, alla fine porta, qualche
volta, ad una soluzione, a un’idea di come uscirne.” (Clinica sistemica, 2004, pag.333)
Una volta varcata la soglia della sala di terapia, Cecchin come costruiva il suo modo di osservare e conoscere il sistema che aveva davanti?
Un punto di vista sulla conoscenza attraverso l’apprendimento, il linguaggio, il pregiudizio, l’irriverenza e la connotazione positiva
Cerchiamo di rispondere a questa domanda entrando nella seconda cornice del nostro pensiero: l’idea di conoscenza. Cecchin cita spesso Bateson, Keeney, Maturana e Varela e tra gli autori che hanno influenzato il suo modo di osservare la famiglia.
Secondo Keeney (1985) è l’osservatore stesso che definisce cosa è importante osservare e come mettere in relazione ciò che osserva; lo fa facendo riferimento alla sue conoscenze, alle sue teorie personali, alla sua storia. Keeney cita Bateson e quelli che egli considera i tre livelli di astrazione che permettono un atteggiamento epistemologico corretto che sta alla base della conoscenza. Ossia: la scelta dei dati grezzi che si intendono osservare, quindi un primo livello di scelta che l’osservatore compie; la scelta di come organizzare tali dati, costruendo strutture che li connettano tra di loro è quindi un secondo livello; infine la consapevolezza che tali scelte siano personali e quindi vi siano altri dati possibili e altri modi per connetterli tra di loro rappresenta il terzo livello. Cecchin dice: “ Se i vecchi concetti vanno ancora bene – se il vino è ancora buono – perché non cambiare bottiglia, cambiare cioè il modo di descrivere i concetti? In realtà non abbiamo altra scelta”. (Cecchin, 1992, pag. 7). Keeney afferma inoltre che il modo in cui l’osservatore partecipa a ciò che osserva rappresenta la sua parte etica dell’osservare: la scelta di quale differenza osservare “presuppone (…) una preferenza, un’intenzione e una base etica. Quest’ottica induce a pensare che ogni descrizione dica altrettanto, o assai di più, dell’osservatore di quanto dice dell’oggetto della descrizione stessa.” (pag. 93)
L’elemento fondamentale dell’agire seguendo questa epistemologia è la creazione di una differenza in quanto solo distinguendo una forma da un’altra siamo in grado di conoscere il mondo. Tracciare una differenza, definire dei confini a ciò che osserviamo, rappresenta un primo atto creativo che permette al terapeuta di distinguere tra tutti i possibili modi in cui la realtà può essere percepita. Maturana e Varela affermano che la conoscenza non si basa solo sulle percezioni, ma anche sulle azioni: conoscere non significa prendere fatti od oggetti esterni a noi e metterli dentro la testa. Significa mettere in relazione ciò che si osserva con l’osservatore e con il suo modo di osservare. In Clinica Sistemica Boscolo e Cecchin sottolineano inoltre l’importanza di un altro pensiero di Maturana e Varela cioè l’idea che la realtà emerge attraverso il consenso. Questi autori hanno permesso loro di avere un nuovo strumento, una nuova lente utile non solo per osservare alleanze, coalizioni e varie modalità organizzative del sistema, ma anche per comprendere come è costruita la
realtà. “Se la realtà emerge dal linguaggio attraverso il consenso, allora significa che cambiando linguaggio cambiamo la realtà. Invece di guardare che cosa è la realtà, ci interessa come la si legge, gli occhiali che si usano” per vederla e descriverla, gli occhiali del cliente e del terapeuta (pag.325).
L’idea di Keeney che l’osservatore con le sue scelte condiziona ciò che osserva sembra riflettersi nell’idea di Cecchin per cui anche la psicoterapia, intesa come spazio di osservazione e quindi come campo scientifico che richiede l’utilizzo di teorie di riferimento per agire, è condizionata dai pregiudizi del terapeuta.
Tali pregiudizi non sono altro che categorizzazioni rigide che esistono a priori e condizionano i modi in cui i sensi prendono contatto con il mondo, pertanto sono responsabili della scelta dei “dati oggettivi”. Cecchin si muove secondo due pregiudizi importanti: una persona ha valore semplicemente perché esiste e una persona esiste solamente se viene vista dagli altri. A partire da questo secondo pregiudizio Cecchin dice che un essere umano non si sviluppa se non è in relazione con altri e quindi non sviluppa neppure l’individualità e la soggettività. Per soggettività si intende il fatto che una persona è un aggregato di tutte le persone che ha incontrato nella sua esistenza. Noi esistiamo sempre in relazione a qualcuno. Secondo questi pregiudizi ne consegue che fino a quando un sistema esiste ogni suo membro ha una importanza fondamentale per la sua stessa sopravvivenza. Cecchin riconosce e difende questi suoi pregiudizi perché si rifiuta di smettere di parlare con le persone, anche con quelle che sembrano senza speranza; in questo modo diminuisce il bisogno di usare metodi di controllo o di esclusione per le persone che non gli piacciono. (Cecchin, 2001)
Certe volte il terapeuta può sentirsi sopraffatto dall’angoscia della situazione. Si può trovare di fronte a persone e relazioni apparentemente senza speranza, a situazioni apparentemente disumane e irreparabili. Per recuperare un senso di competenza Cecchin esce da questo impasse considerando il fatto che una persona ha valore semplicemente perché esiste: “quando si riesce a “vedere” la persona in quanto tale indipendentemente dai suoi aspetti disperanti si riesce a riacquistare interesse e a diventare curiosi nel cercare di capire la vita delle persone intrappolate in relazioni e in contesti di vita apparentemente strani”. Questo permette al terapeuta di essere libero di osservare il cliente da un nuovo puto di vista, senza biasimo e disapprovazione. Citando Jackson Cecchin dice che “quanto bizzarro possa sembrarvi un particolare individuo dipende dalla vostra cornice di riferimento e dai limiti della vostra esperienza”. (Cecchin, 1993, pag.33). In terapia si ascoltano le storie delle persone e intanto si costruisce una nostra storia che è diversa dalla loro e “tentiamo di entrare nel loro mondo privato cercando di comprenderlo, di dare un senso a tutte le contraddizioni e le difficoltà e portiamo lentamente la conversazione sulle problematiche, restando fedeli alla loro
storia privata, combinandola con le possibili reazioni degli altri. Un ulteriore scopo del dialogo e della conversazione è di portare un senso di connessione tra i membri della famiglia. Li aiutiamo anche a rendersi consapevoli della loro partecipazione alla costruzione della loro storia: le persone che credono di vivere passivamente la loro esperienza, vengono rese consapevoli della loro partecipazione ad essa.” (Cecchin, 1993, pag. 29). I contenuti che vengono portati in terapia dal cliente sono le idee, i dati, mentre Cecchin segue le relazioni, il senso che le persone danno ai loro dati. La costruzione di senso su cui pone l’accento Cecchin non è relativa ai contenuti che le persone portano in terapia, relativamente al loro problema, ma riguarda invece il modo in cui ogni cliente usa questi contenuti per relazionarsi con gli altri. Cecchin non guarda al “cosa”, ma guarda al “come”: come sono giunti a dare a quelle sequenze interattive, quei particolari tipi spiegazione e quindi come costruiscono le proprie storie. Quando Cecchin si confrontava con i suoi allievi la domanda, quasi scontata era: “ma tu cosa hai visto” e non “cosa hai sentito”. Ciò che dava senso al suo osservare era quello che accadeva tra le persone in terapia, non quello che le persone raccontavano. Nello stesso modo non erano i contenuti l’oggetto delle sue domande e dei suoi interventi, quanto le relazioni, le trame che connettevano i vari membri del sistema: lasciava parlare le persone e le guardava come se vedesse srotolarsi i fili che le connettevano e cominciava a far domande su questi ultimi, tralasciando i contenuti appena detti.
L’irriverenza secondo noi è ciò che ha permesso a Cecchin di connettere le relazioni che osservava in una modalità nuova, diversa, usando quello che Bateson, come abbiamo citato prima, definisce come terzo livello di astrazione dell’osservare. Il suo interesse non era verso il capire ciò che effettivamente produce il cambiamento, ma era interessato al cambiamento che si verifica nel concreto.
Tale atteggiamento mentale presuppone una estrema consapevolezza della propria competenza e conoscenza scientifica e di conseguenza una forte responsabilità verso le proprie scelte terapeutiche. Cecchin crede fermamente in una epistemologia cibernetica e nella possibilità che le teorie di riferimento siano costantemente falsificabili, anche in terapia. Afferma che per un terapeuta sistemico, finché un sistema è vivo c’è qualcosa che funziona e c’è sempre la possibilità di fare qualcosa, per quanto le cose vadano male. Non ci sarà mai situazione in cui si potrà mai fare nulla, c’è sempre una via d’uscita in quanto i sistemi non possono rimanere inchiodati per sempre. Secondo Cecchin è quasi una fede credere che i sistemi non sono fissi. Possono essere fissi i sistemi fisici, ma i sistemi viventi non lo sono perché c’è sempre qualcosa che si muove. (Muraro, 2008). A livello scientifico il cambiamento è considerato normale. Ogni sistema umano ed ecologico è in una condizione permanente di cambiamento, non si ferma mai. Probabilmente per la regola dell’adattamento il sistema umano deve adattarsi alla vita sul pianeta. Se il sistema non si adatta o non cambia muore. sistemi sono organizzati attorno al cambiamento; ma quando i sistemi si
bloccano o smettono di cambiare allora interviene la terapia. Non muoversi fa stare molto male. Cos’è un barlume di cambiamento se non una nuova idea che arriva loro? Questo permette di vedersi diversamente, si ha una nuova storia.
Questa modo di leggere le situazioni Cecchin non lo applicava solo in terapia, ma lo riteneva importante e lo applicava durante il percorso di formazione in qualità di didatta: riteneva importante permettere a tutti i membri del gruppo di formulare le loro idee assicurando a tutti un libero accesso; in un secondo tempo venivano riformulate le varie ipotesi e idee emerse in modo da renderle coerenti con il caso specifico, senza però appiattirle in un’unica prospettiva e lasciando aperte più alternative. Secondo lui in questo processo è molto importante non farsi coinvolgere troppo dai contenuti dalle varie storie proposte dagli allievi, enfatizzando invece la loro capacità di osservare modelli di interazione. Di solito il rischio di simmetrie è maggiore quando si presta troppa attenzione ai contenuti.
Cecchin suggerisce, per chi lavora da solo, l’impegno a saper cogliere i propri segni di disagio quando la situazione non si evolve. Secondo lui in questi casi, il terapeuta è bloccato perché troppo preso dai contenuti e quindi incapace di vedere il processo, oppure può avere perso la capacità di mostrarsi irriverente ne confronti dei suoi pregiudizi, quindi deve mettere in atto anche la curiosità verso modi alternativi di pensare alla situazione. Oppure, può essere troppo sottomesso al contesto in sui lavora e condizionato dai suoi vincoli. (Cecchin, 2003)
Per uscire da questo disagio Cecchin usa dunque l’irriverenza. L’irriverenza non è un nuovo modello o un nuovo punto di vista, ma è la capacità di cambiare punto di vista e muoversi tra i modelli, è una elasticità mentale che consente di abbandonare, oggi, idee, ipotesi e convinzioni a cui ieri si aderiva con entusiasmo. In alcuni momenti della terapia lui sa essere un mago e così si definisce in Clinica Sistemica, e lasciava la sua equipe nel dubbio perenne: gli allievi si chiedevano “ma come ha fatto, come è arrivato là?”. Questa è la sua arte, è la parte che tutti noi stiamo ancora cercando. L’irriverenza e la sua curiosità erano il suo pennello, il suo scalpello o il suo strumento musicale?
Un punto di vista artistico
Volendo tentare una definizione condivisibile di arte, possiamo dire che essa comprende ogni attività umana che porta a forme creative di espressione estetica poggiando su competenze tecniche, abilità innate e abilità derivanti dallo studio e dall’esperienza. L’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e messaggi soggettivi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice di interpretazione. Bateson sosteneva che l’arte fosse un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo. Secondo lui il dilemma dell’ artista era che per sperimentare le componenti tecniche del suo mestiere doveva esercitarsi, ma l’esercizio ha sempre
un duplice effetto: se da una parte rende l’artista più abile in ciò che fa, dall’altra, la formazione dell’abitudine lo rende meno consapevole di come lo faccia.
La differenza che troviamo tra un artista e un terapeuta come Cecchin è che l’artista crea le armonia, inventa strutture armoniche; nella musica per esempio mette insieme varie voci che, apparentemente sono slegate e vanno ognuna per conto proprio, in realtà sono legate l’una all’ altra in un modo preciso. Il terapeuta osserva le varie voci portate dalla famiglia cogliendone connessioni e armonie. La curiosità di Cecchin era quella di vedere che tipo di musica stava suonando quella particolare famiglia e con quale originalità. Lui si poneva con la mente aperta verso il sistema per cercare di capire qual era la peculiarità che quel gruppo era riuscito ad inventare, anche se, apparentemente la musica che andava ad ascoltare poteva avere dei tratti simili a qualche altra musica. “ Ogni armonia ha delle sue regole e per capirle bisogno andare a cercare gli stridori, i suoni, che chiamiamo “le contraddizioni”, insomma i disturbi di questa armonia. A volte possiamo dire alla famiglia che va bene la sua armonia, anche se ogni tanto ci sono dei disturbi, ma che questi disturbi fanno parte di una più vasta armonia. Altre volte il terapeuta cerca di aumentare questi stridori per far diventare la musica più interessante, perché a volte lo stridore può creare nuova armonia, come nella musica contemporanea dove vengono sfruttati suoni strani e imprevedibili. Pure il terapeuta può in qualche modo aiutare i membri della famiglia a suonare meglio insieme, senza stridori. Ma prima bisogna cercare di capire che cosa vogliono loro.Seguendo questa metafora della musica possiamo dire che in terapia qualche volta si cerca di sfruttare i suoni strani. Come nella musica, è il direttore d’orchestra che decide quale suono dare più valore o a quale voce dare più risalto” ( A. Moro; F. Marcomini pag.2). Compito del terapeuta, secondo Cecchin, è di far suonare tutti gli strumenti, per farli sentire vivi e indispensabili e questo passando dall’uno all’altro membro della famiglia attraverso le domande circolari.
La famiglia porta in terapia ciò che non va delle sue armonie e può dire che un suo membro suona male ed è inutile. Per Cecchin era importante farlo suonare lo stesso, anche se suona apparentemente male, perché anche una cosa che sembra disarmonica contiene la sua armonia. Anche quello che non va fa parte del sistema e Cecchin ne cercava il senso estetico. Alla fine della conversazione terapeutica lui entrava a far parte del coro e nel tentativo di estrarre le armonie presenti nel sistema lui alla fine le inventava assieme alla famiglia.
Conclusioni
Concludendo Cecchin era un uomo di scienza o un artista?
Secondo Bateson senza tecnica non c’è arte. I comportamenti artistici, o i loro prodotti possiedono due caratteristiche: richiedono abilità tecnica e contengono ridondanza o struttura. Queste due caratteristiche non sono separate: l’abilità sta prima nel mantenimento e poi nella modulazione
delle ridondanze (Bateson 1977 pag. 187).
Teoria e pratica hanno bisogno l’una dell’altra per svilupparsi in modo armonico. “La teoria senza il nutrimento della pratica tende ad inaridire la pratica e la pratica senza il contenimento e la guida della teoria tende a degenerare”. ( Madonna 2003, pag 33).
Pertanto, la classe delle interazioni psicoterapeutiche coscienti, dove il terapeuta incontra un paziente per aiutarlo e il paziente incontra il terapeuta per farsi aiutare vanno intese come forma. Le singole interazioni, non finalizzate e non consapevoli che si svolgono durante la seduta vanno intese come processo. Ed è proprio in queste azioni spontanee, affidate alla propria sensibilità e alle proprie emozioni, che il lavoro del terapeuta sarà molto simile a quello dell’artista. Tali abilità non possono venire insegnate o apprese, ma sono una pura questione di talento. Sono abilità che si imparano “ a bottega” ( Madonna, 2003).
La connessione che ci è subito balzata agli occhi pensando ad un artista è stata quella con Picasso e con la sua abilità di descrivere le persone e gli oggetti osservandoli attraverso uno sguardo tutto suo. Lui asseriva che la pittura è una professione da cieco: “uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto”. Cecchin non era o uno scienziato o un artista, ma un esperto di relazioni che usava la scienza terapeutica in modo artistico; come diceva Keeney (1985, pag.214):
Terapeuta: Che cosa devo fare per diventare un artista della terapia?
Epistemologo: Devi cominciare con l’esercizio.
BIBLIOGRAFIA
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Sul sito www.terapiasistemica.it alla sezione “Scaffale”.
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